Futurismo e performance

Futurismo e performance

Paolo Guzzi, Un sogno lungo un secolo di arte libera e multipla

A ridosso dell’imminente centenario della nascita del movimento futurista, vale la pena di tornare a sottolineare come tutte le odierne proposte e pratiche performative, anche veicolate da video e new media, hanno la loro scaturigine poetica e concettuale nelle sperimentazioni dell’avanguardia storica capeggiata da Marinetti. Che riprendendo certi spunti del teatro di varietà si inventava poi il teatro sintetico, dinamico-sinottico, rumorista e quant’altro, il quale nella sua turbinosa interdisciplinarità ha fornito modelli operativi a tutti gli artisti di ricerca del secondo Novecento (basti pensare in America a Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg, Vito Acconci, Meredith Monk e Laurie Anderson).

Non credo ci sia qualche critico che non veda come ogni tentativo, più o meno riuscito, di fare arte di ricerca, anche oggi, in Italia, si volga in primis al Futurismo, unico movimento d’avanguardia storica in Italia, e poi al Surrealismo, al Dada al concettuale dei nostri tempi più recenti.

La relazione tra Futurismo e performance è ampiamente riconosciuta e se ne evidenzia il legame stretto anche oggi. Il Futurismo produsse alcuni manifesti dedicati alla musica (Pratella li pubblicò nel 1910 e 1911) e alla drammaturgia futurista nel gennaio 1911. Tali testi incoraggiavano gli artisti a produrre spettacoli più elaborati. A loro volta, tali spettacoli producevano manifesti più dettagliati. Gli spettacoli improvvisati per mesi e mesi, durante i quali gli artisti sperimentarono diverse tattiche sceniche, furono, per esempio, all’origine del Manifeste du théâtre de variétés che fu il testo ufficiale del teatro futurista. Pubblicato nell’ottobre del 1913 e, un mese più tardi, nel londinese Daily Mail, quindi nella rivista fiorentina “Lacerba”, che divenne nel 1913 l’organo ufficiale del Futurismo, il Teatro di varietà era ammirato da Marinetti per la semplice ragione che esso “aveva la fortuna di essere senza tradizioni, senza maestri, senza dogmi”. In realtà tale teatro aveva le sue regole e i suoi maestri, ma proprio questa varietà, mescolanza di cinema e di acrobazie, di canzoni e di danza, di numeri di clowns e di “tutta la gamma di stupidaggini, di imbecillità, di sciocchezze e di assurdità, che respingono l’intelligenza ai limiti della follia” ne faceva un modello ideale per le serate futuriste. I Futuristi amavano tale teatro, inoltre, perché non aveva intrighi, né intrecci e obbligava gli autori e i tecnici a “inventare senza sosta nuovi elementi di stupore.” Inoltre tale teatro, costringeva il pubblico a partecipare, togliendolo dalla condizione di “spettatore stupido” e così l’azione doveva svolgersi simultaneamente nei camerini, sulla scena e in platea. Per poco che si conosca lo stato della performance di questi anni, non è chi non ricordi alcuni spettacoli di Fabio Mauri, di Bartolomé Ferrando di Julien Blaine, di Giovanni Fontana, che realizzano, ciascuno a suo modo, ancora oggi le teorie futuriste. La divulgazione, attraverso il teatro futurista, di teorie politiche esemplificate anche per i bambini, sono riprese da noi e non solo, negli anni Sessanta, da performer che hanno dato ai loro interventi, connotazioni politiche sovente di estrema sinistra (Gruppo 70 con i fiorentini Pignotti, Miccini, Ori, Chiari).

Il teatro di varietà futurista, il cabaret, in sostanza, sedusse Marinetti per “la rapidità delle sue scoperte e per la semplicità dei suoi mezzi”. Si trattava, per Marinetti, di un teatro che” distruggeva il Solenne, il Sacro, il Serio, e il sublime dell’Arte con la A maiuscola”. Il Solenne ed il Sublime fu distrutto definitivamente da una interprete, un’attrice: Valentine de Saint-Point. Autrice di un

Manifesto del desiderio (1913) dette alla Comédie des Champs Elysées, il 20 dicembre 1913, a Parigi, un singolare spettacolo, fatto di poesie d’amore, di guerra, di atmosfera, danzando davanti a grandi tele che facevano da fondale, illuminate da luci colorate. Sui muri circostanti erano proiettate formule matematiche, mentre musiche di Satie e di Debussy accompagnavano la sua complessa coreografia. Lo spettacolo fu replicato a New York nel 1917 (Metropolitan Opera House).

Non a caso, qualche anno fa, al teatro dei Dioscuri a Roma durante una Vetrina del Centro Nazionale di Drammaturgia Teatro Totale, (2000) diretto da Alfio Petrini, Giovanni Fontana presentò Piedigrotta di Cangiullo. Scritto dunque da Cangiullo sotto la forma del teatro delle “parole in libertà” il testo era stato recitato o meglio “declamato”come diceva Marinetti, da Marinetti stesso, da Balla e da Cangiullo, nella galleria Sprovieri di Roma il 29 marzo e poi in replica, il 5 aprile 1914. Vi erano state precedentemente alcune versioni dello stesso testo, ma in quel caso si ebbe una migliore cura nell’elaborare e nell’illustrare le nuove idee presenti nel Manifeste du théâtre de variétés. La galleria Sprovieri era illuminata con luci rosse e alle pareti erano stati messi quadri di Carrà, Balla, Boccioni, Russolo e Severini. Una stravagante compagnia (Sprovieri, Balla, Depero, Radiante e Sironi) assisteva alle “parole in libertà” dette da Marinetti e da Balla mentre Cangiullo accompagnava al piano. La compagnia, stravagante con grandi cappelli di carta di seta, suonava strani strumenti “fatti in casa”: grandi conchiglie, una sega che faceva da archetto di violino, ed altri aggeggi simbolici e “assurdi” che avrebbero dovuto combattere con l’ironia la tendenza decadente alla nostalgia e al “chiaro di luna”.

Lo spettacolo fu l’occasione di un altro manifesto, quello della Déclamation dynamique et synoptique che condannava la staticità della recitazione, abituale a quei tempi, esaltando invece il movimento di tutti gli arti dell’attore, e la necessità di accompagnarsi con strumenti rumorosi.

Piedigrotta fu il primo spettacolo del genere e fu seguito, verso la fine di aprile 1914 alla galleria Doré di Londra, poco dopo il ritorno di Marinetti da un viaggio a Mosca e a San Pietroburgo dal suo Zang tumb tumb.

Teatro rumorista, musica rumorista che fu codificata dall’Art des bruits, manifesto redatto da Russolo, dopo lo spettacolo di Balilla Pratella dato al Costanzi di Roma nel marzo 1913. Il suono delle macchine dunque ha una sua musica e lo dimostra la Macchina tipografica (1914) di Balla durante una rappresentazione privata in onore di Diaghilev. Non a caso, nel 1999, a Parigi, galérie Satellite, davanti ad un pubblico di artisti e poeti, fu riproposta, sempre dall’attento Giovanni Fontana, la macchina tipografica balliana cui parteciparono, coinvolti nella rappresentazione, lo stesso Fontana, Tomaso Binga, Lamberto Pignotti, Sylvie Ferré, Paolo Guzzi.

Ad ogni esecutore era stato attribuito un suono onomatopeico affinché ciascuno rappresentasse “l’anima dei differenti pezzi di una rotativa”. È chiaro che tali esecuzioni non facevano che realizzare le idee di Gordon Graig che pubblicava a Firenze la sua rivista teorica The Mask in cui arrivò a teorizzare l’abolizione dell’interprete a vantaggio di una supermarionetta, da lui mai realizzata sulla scena, ma che passò ai Futuristi, in parte modificata, nel senso che i Futuristi accolsero sulla scena marionette e interpreti umani che interagivano (Le Marchand de coeurs di Prampolini e Casavola).

Nell’avvicinamento progressivo del Futurismo alla performance, e viceversa, non possiamo non tenere conto del teatro sintetico. Il Futurismo, come si sa, non lasciò scoperto alcuno spazio dell’arte, del teatro, della letteratura, della musica e della maniera di vivere stessa, impegnandosi nel dettare leggi sulla moda, sulla gastronomia, sul maquillage. Il teatro sintetico fu un’altra pratica assai coinvolgente, arrivata sino a noi anche nel cinema (i “corti”) e ancora nel teatro (i “corti teatrali”) più volte impiegato dalle neo avanguardie degli anni 60, ma che agli inizi del XX secolo ebbe un impatto notevole sul pubblico. La condensazione delle idee e dell’azione specialmente, che ritroviamo anche nella pubblicità, oggi, è ripresa nella performance, che, definita in circa quattrocento modi, può dirsi sicuramente art vivant e cioè arte in movimento.

Oggi, la crescita esponenziale di artisti performativi in tutti i continenti, i corsi universitari e i numerosi libri dedicati alla performance, gli innumerevoli musei che aprono le loro porte ai media, provano che la performance, agli inizi del XXI secolo, non ha perduto nulla della sua energia né del suo potenziale, sin da quando i futuristi italiani vi si dedicarono per cogliere la velocità e il dinamismo del XX secolo che incominciava. Oggi la performance si nutre della nuova, complessa tecnologia di cui tutti fruiamo, al minimo o al massimo grado di abilità, e quindi maggiormente riflette il gusto per la velocità dell’industria e della comunicazione , mentre è, allo stesso tempo, un antidoto alla alienazione frutto della nuova tecnologia dei nostri tempi d’oggi. Infatti è la stessa presenza dell’artista performativo cha agisce in tempo reale arrestando quasi il tempo e la sua velocità (si pensi ad Allister MacLellan, a Vaara, al giapponese Shimoda ed ai nostri Pignotti, Fontana, Binga, Miccini, Fabio Mauri, Mambor, Carlo Marcello Conti) a conferire a questa tecnica artistica una posizione centrale. La sua espressione, in diretta, suscita nel pubblico che sempre più frequentemente assiste, nei musei o durante i numerosi festival (si pensi a quello di Lione, vera e propria rassegna e ratifica degli stati generali della performance, si pensi al nuovo museo Pecci di Prato, dedicato alla poesia visiva e alla performance, inaugurato nel 2006 con performances di Julien Blaine, Arrigo Lora Totino, Lamberto Pignotti) una vera e propria seduzione. E non importa se qualcosa riesce male, durante la realizzazione del performer, il tutto si avvicina molto agli insuccessi dei futuristi, tanto esaltati e, in un certo senso, cercati da Marinetti. L’apparente casualità di alcune performances, che si affiancano invece alla maniacale preparazione minuziosa di altre, rende il pubblico più vicino agli artisti in carne ed ossa, che si accampano nello spazio senza che di solito vi sia un luogo assolutamente deputato, ma che trovano nella piazza, nella strada, ovunque, perfino nei musei e nelle gallerie d’arte, diciamo paradossalmente, la sede ottimale per “performare”. Opere d’arte in movimento, dunque, più vive a volte di quelle immobili appese alla parete. Il movimento, direi, è la caratteristica che maggiormente è stata mutuata dal Futurismo, oggi, quindi anche il suo opposto, che è l’immobilità estrema, con cui in alcuni casi si esprimono alcuni performer.

Naturalmente si moltiplicano gli studi su questa singolare forma d’arte. L’espressione “performance artistica” sembra ormai buona per tutte le forme di performance e quindi diventa insufficiente a stabilirne le varie forme. Interattività con lo spettatore, installazioni nelle discoteche, sfilate di moda, obbligano i critici e gli spettatori a maggiormente definire il genere cui si va assistendo sotto angolazioni nuove, a decrittarne le forme concettuali di espressioni che si vanno diversificando. Il termine “performativo” si va estendendo in architettura, in semiotica, in antropologia e nell’ambito di studi sui codici in trasformazione. Si studiano i materiali della performance, ci si obbliga alla catalogazione, a studi più ampi, si invadono altri territori.

Lungo la sua storia, che, possiamo datare, inizia intorno al 1933, negli USA, ad opera di transfughi dal Bauhaus, tutte le volte che, come un’onda marina, o come la luce e l’ombra, o come il sonno e la veglia, la performance, dopo un periodo di eclisse, si è ripresentata al giudizio del pubblico, è sembrata cambiata. Tuttavia, dagli anni ’70, è apparsa più continua e più omogenea. Mentre i Futuristi, dopo un’esplosiva esperienza, se ne sono serviti per approfondire il campo della pittura e della scultura tradizionali, se vogliamo, come già dal 1960 hanno fatto Rauschenberg e Oldenburg e negli anni ’70 Acconci e Oppenheim, numerosi artisti quali Meredith Monk e Laurie Anderson si sono dedicati esclusivamente a questo campo artistico, lavorando per parecchi anni all’elaborazione di un coerente percorso.

La performance, nonostante il successo degli anni ’80 e maggiormente degli anni ’90, forse oggi, che espande il suo successo, perde invece la sua carica eversiva. Imprevedibile e imprendibile, difficilmente definibile, rischia di essere ripudiata dagli stessi artisti, e alcuni se ne servono ancora soltanto per stupire e scandalizzare il pubblico, seguendo la moda. Divenuta materia di studio, ha perso la sua connotazione di work in progress e si museifica nei CD rom e nei Video e negli studi minuziosi degli specialisti. Come è stato ed è ancora per il Futurismo, che però, dopo decenni, oggi si fa risentire con rinnovata forza, ricomparendo qua e là, anche nella performance.