Farfa - Tomassini Vittorio Osvaldo

Farfa – Tomassini Vittorio Osvaldo

Trieste 1879 – San Remo 1964. Fu pittore, aderì al Secondo Futurismo. Quale poeta pubblicò testi poetici in cui sperimentava la disgregazione sintattico-linguistica: Noi, miliardario della fantasia (1933), Il poema del candore negro (1934), Marconia (1937).Postumi apparvero i versi della raccolta Farfa poeta record nazionale futurista (1970).
È stato un protagonista del futurismo (attivo a Trieste, Torino, Savona – abitava in Via Istria – e Sanremo, in un misero bilocale), come cartellonista, ceramista, fotografo e poeta. Autore di coloratissime cartopitture e di libri dal carattere bizzarro e dadaista. Dalla fine degli anni cinquanta fu riscoperto dai surrealisti (Arturo Schwarz, Enrico Baj) e da altri protagonisti dell’avanguardia (Asger Jorn). È stato inserito da Edoardo Sanguineti nella sua Poesia italiana del Novecento e da Glauco Viazzi ne I poeti del futurismo 1909-1944.

La peculiarità della poesia di Farfa risiede nella compiuta antropomorfizzazione del suo universo di oggetti: un esilarante prestito di identità umane agli oggetti (il «treno», le «rondini», i «vagoni merci», il «trolley», i «tenders», le «locomotive», «il pettine del vento», la «tettoia arcuata come bocca di gitana», «la bocca del tunnel», «i tubi» narrati nell’omonima poesia in un lunghissimo elenco antropizzato e de-funzionalizzato). Un universo antropico dunque, che ha esiti di esilarante e spassosa leggerezza. Poiché tutto somiglia a tutto, ergo nulla è come si vuole che sia, nulla è come lo sguardo addomesticato della normalità vuole dirci che gli oggetti siano.
Una poesia anti-normale che si ciba della normalità delle cose per ribaltarle in un’altra «normalità» della visione antropizzata. Gli oggetti non sono deformati quanto reimpiegati secondo una modalità d’uso non stereotipata, non conforme al modello logico della ragione del profitto e della funzionalizzazione all’uso; sono semmai gli aggettivi a subire una curvatura, una deformazione ma appena percettibile («crepabronzo», «incalliginita»), tanto da renderli funzionali al progetto della visione de-essenzializzante e de-realizzante di Farfa.
C’è come una miopia generalizzata e sistematizzata nell’universo degli oggetti di Farfa, come se gli oggetti non fossero al loro posto, al posto che ci si aspetta che essi siano; si verifica così uno scambio, uno shifter tra essi e l’identità umana del soggetto il quale presta loro un animismo umanizzato, antropizzato.

Potremmo definirlo un cartellonista della poesia tra futurismo, surrealismo, dadaismo e patafisica, se non fosse una formula alquanto riduttiva per la tradizione italiana così seriosa e assennata che non ha mai accettato di essere messa alla berlina e di essere spodestata dalla linea della presunta centralità della poesia funzionale al binario lirica anti-lirica.

Sappiamo infatti che Farfa soffriva di una gravissima forma di miopia ma si rifiutò per tutta la vita di indossare gli occhiali, per cui la sua visione delle cose era soffusa e rarefatta, vedeva solo i contorni degli oggetti e delle persone.

Investito da un’ automobile, non vista sopraggiungere probabilmente a causa della miopia, Farfa morì a Sanremo il 20 luglio 1964. Lasciò migliaia di poesie inedite, da lui medesimo infagottate alla rinfusa in sacchi di juta per il carbone. Nessuno è in grado di dire dove siano andati a finire quei sacchi.